25 aprile 1995. Suono con i Modena City Ramblers. Porto un berretto con la visiera decorato con una stella rossa (paccottiglia ex-sovietica riversata dai magazzini dell’Armata Rossa direttamente sui banchetti della Montagnola) e un drappo rosso appeso alla fisarmonica. Schiena ben dritta, compreso nel ruolo, mi sento un po’ la guardia d’onore di Germano Nicolini, il Comandante Diavolo, che vedo per la prima volta e che parla ai ragazzi venuti al concerto di Materiale Resistente, a Lenizzone di Correggio. C’è odore di pioggia, il cielo minaccia temporale. Orde di ragazzi giovanissimi puntano sul palco sbucando dai viottoli di campagna dove hanno parcheggiato le auto in bilico sul ciglio dei fossi. Il carisma di Nicolini è impressionante. Ho un momento pazzesco in cui penso “Adesso dice di andare a prendere le armi all’ex comando partigiano, che ci riprendiamo l’Italia, e io, per Dio, ci vado.”
Poi il momento passa, ma mi resta l’idea di una comunità che si mette al lavoro per realizzare un’iniziativa tutto sommato piccola e artigianale, ma con una fortissima carica di utopia, di assalto al cielo. I rapporti di rispetto e confidenza tra il giovane sindaco, Nicolini, Ferretti e Davide Ferrario mi danno l’idea che dietro Materiale Resistente, al di là dei diversi vissuti, vi sia un’idea comune di costruzione del futuro con i materiali del passato che sento molto vicina. Ma che gente è questa?
Oggi ho la risposta: questa gente siamo noi, gli italiani, gli emiliani, come avremmo dovuto essere. Quelli della ricostruzione postbellica, che credevano che il futuro sarebbe stato migliore del loro presente e se lo costruivano, a colpi di cooperative, fabbrichette, urbanizzazione e servizi. Quelli dei diritti sociali, del welfare avanzato e anche del rock e del punk nei circoli Arci. Quelli che sanno buttare il cuore e l’organissasione – parola-totem dalle nostre parti – oltre l’ostacolo. Mi hanno raccontato di un giovane contadino, figlio di una famiglia di mezzadri di un paesino vicino a Parma, che era diventato comandante ed eroe partigiano. Alla Liberazione ridiscese al paese coperto di gloria, e immediatamente venne eletto sindaco. Dopo l’insediamento chiamò il segretario comunale e gli disse: “Ragioniere, il popolo ha tanti bisogni. Cosa possiamo fare?”. Il segretario rispose “Mah, con la guerra è dura per tutti. Abbiamo solo del deficit.” “Bene, – concluse il sindaco – intanto cominciamo a spendere quello.” Ignorante? Amministratore sprovveduto? Mica tanto: solo tre anni dopo quel comune comprò per 19 milioni di lire Rocca Sanvitale, dimora avita dei conti Sanvitale, a cui il padre del sindaco partigiano andava a versare la decima, e la trasformò nel municipio. L’importante non sono le risorse, ma la volontà di usarle per il bene comune. E gli ostacoli si possono superare, perfino il cielo può essere assaltato e espugnato.
Le cronache dell’Emilia postbellica sono piene di gente così. C’erano i grandi, i Dossetti, i Dozza; ma c’era anche un’attitudine generale. Ho un ricordo ammirato di un sindaco di Montecchio il giorno dopo che un temporale improvviso aveva gonfiato l’Enza e inondato il campeggio della festa di Cuore: venne a ispezionare il danno e trovò una squadra che spargeva ghiaia sopra il fango. Senza stare a pensarci troppo si tolse la giacca, si face dare una pala e si mise al lavoro con gli operai comunali. Altroché casta.
Ecco: in certi momenti – come quel 25 aprile del 1995 – ho l’impressione di stare in un mondo parallelo in cui questa Emilia è ancora la norma, non l’eccezione. Un posto dove il saper fare conta più dell’apparire, dove la cultura e la scienza sono rispettate (tè studia, mi diceva mio nonno, che poi il resto viene da solo), dove i capi sono amati e rispettati e si fanno il culo quattro volte gli altri. Un posto dove un contadino (Aldo, uno dei sette fratelli Cervi) si compra negli anni 30 il primo trattore della zona e entra in paese con un mappamondo legato sopra il cofano, a simboleggiare la fratellanza universale che lega il suo lavoro all’umana avventura, e i Campi Rossi al mondo.
L’Emilia non è più così, lo sappiamo. Probabilmente non lo è mai stata. L’Emilia è Italia: provinciale, spaventata, becera, consociativa, egoista, immobile, gerontocratica, e chi più ne ha più ne metta. Probabilmente anche Correggio è abbastanza così, anzi mi risulta che, mescolata ai pezzetti di utopia realizzata – il parco urbano, l’ANPI di Nicolini e Taver, l’esperienza di Materiale resistente – ci sia un bel po’ di roba abbastanza ignobile. Questa cosa mi fa incazzare. Mi fa incazzare in sé e mi fa incazzare perché è un tradimento dell’idea di società che questa terra ha saputo esprimere. Mi fa incazzare talmente tanto che ho scelto di emigrare a Milano, che è un posto di merda ma almeno lo è alla luce del sole.
Però ci sono ancora dei posti e dei momenti, in Emilia, dove sembra che si apra un varco, dove il futuro sembra di nuovo una cosa che si costruisce, dove l’uomo, con tutti i suoi limiti e la sua tensione a superarli, è l’unità di misura e il valore, dove il cielo si può e si deve assaltare. Il Museo Cervi a Campegine. Montecavolo, con la sua piscina cooperativa. Il museo della Resistenza a Montefiorino. Il Fuori Orario a Taneto di Gattatico. E Correggio, a volte: io sono socio dell’ANPI di Correggio, paese in cui non ho mai abitato e in cui sarò stato forse quindici volte nella mia vita, e quella tessera è come un talismano che mi ancora alla mia Emilia sognata.
Quindi ai correggesi vorrei dire: non rassegnatevi alle miserie dell’Emilia che abbiamo. Potete fare meglio, e in qualche momento – come quel 25 aprile sui prati di Lenizzone – l’avete già fatto e continuate a farlo. Diventate cittadini di questa Emilia che sogno, siate lo specchio di ciò che noi emiliani avremmo dovuto diventare. Non eroi, poeti o santi, ma gente seria, gente che lavora e va dritta per la sua strada e costruisce insieme il proprio futuro. E non si arrende mai all’andazzo generale, non cerca scuse nel contesto sfavorevole (benché il contesto sia effettivamente sfavorevole), non si rassegna alla volontà del cielo. Anzi, se là sopra c’è qualcuno è meglio che stia in campana.
Il cielo si può sempre assaltare.
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