Un’altra grande figura della storia recente africana da conoscere e raccontare è quella di Thomas Sankara , per pochi anni presidente del Burkina Faso un uomo che ha lottato per un’Africa diversa, non dipendente dal gioco occidentale, mosso da grande spessore morale.
Qui di seguito le importanti parole espresse da Don Alex Zanotelli riguardanti Nyerere e Sankara.
http://www.thomas-sankara.info/Prefazione%20di%20Padre%20Zanotelli.pdf
Prefazione di Padre Alex Zanotelli
Il continente africano, in particolare l’Africa subsahariana, sta vivendo una tragedia immensa. E’ per me oggi
il continente martire, il continente crocefisso. E’ il continente dimenticato, lasciato da parte, brutalmente
lasciato morire. Eppure, guardando più in profondità le cose, bisognerebbe parlare di tradimento di
quest’Africa, bisognerebbe iniziare a parlare di nuova colonizzazione dell’Africa, perché è questo quanto sta
avvenendo. Il viaggio di Bush in Africa nel luglio di quest’anno è un’altra dimostrazione di quanto l’Africa sia
sempre più colonizzata. Già con Clinton era scattato l’AGOA, un trattato commerciale tra gli Stati Uniti e i
paesi africani. AGOA significa Africa Growth Opportunity Act ed è un atto parlamentare per l’opportunità
della crescita in Africa. Quando gli Stati Uniti parlano di opportunità di crescita non è certo quella
dell’Africa, ma è sempre la loro. Dicendo questo, io non mi sento assolutamente antiamericano, anzi.
Lo scopo fondamentale dell’AGOA è di tradurre in piccole dosi il trattato del MAI, Multilateral Agreement
on Investment, che noi in Europa abbiamo rifiutato. L’AGOA prevede la liberalizzazione dei mercati,
l’abbattimento delle tariffe, la possibilità per le multinazionali di comprare terra e sottosuolo – tutto è in
vendita in Africa – ma in particolare la cosa gravissima è che l’Africa diventa la nuova frontiera, un grande
mercato sul quale le multinazionali butteranno i loro prodotti, dato che i nostri mercati sono ultrasaturi.
Tutto questo con la benedizione delle élite e delle borghesie africane, che hanno radicalmente tradito le masse popolari in Africa. Basterebbe leggere il libro “Anthills of the Savannah” di Chinua Achebe, uno dei più
grandi scrittori nigeriani, in cui si fa un duro attacco contro il tradimento delle borghesie africane. A questo
bisogna sommare il tradimento dei capi africani, dei leader africani, dei vari presidenti. Dall’indipendenza in
qua è stato un tradimento a non finire. Con poche eccezioni.
Tra queste vi è certamente la figura notevolissima di Julius Nyerere, che ha tentato una sua via, la strada della Tanzania. Una strada che guardava al bene di tutti. Un’esperienza che purtroppo è andata male, sia per problemi interni – burocratizzazione e corruzione – sia per gli ostacoli esterni posti dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale che non potevano accettare un esperimento del genere. Nyerere è stato di una grandezza incredibile, uno dei pochi che si è ritirato, uno dei pochi che è rimasto povero. Ed è ritornato a
vivere da poveruomo, come tutti. Insieme con un altro leader, Nelson Mandela, che dopo ventisette anni di
galera è diventato presidente del suo paese. E lo ha fatto davvero alla grande, come una figura carismatica, di cui l’Africa aveva bisogno.
Ho riflettuto a lungo su chi poteva essere un modello di presidente in Africa e, insieme a Nyerere e a
Mandela, non posso che pensare a Sankara. Sankara è un grande: per la lucidità con cui ha assunto la
sofferenza della sua gente e ha tentato di dare delle risposte. Penso che Sankara è stato prima di tutto un
esempio di quello che significa essere presidente in Africa, in un contesto di sofferenza inaudita. E’ stato
l’unico a vivere in maniera semplice, vicino alla gente. La grandezza di Sankara è di aver assunto la sofferenza dei burkinabè, che sono un popolo fiero e bello, ma anche un popolo che soffre.
Parlando del suo paese dice: “Pochi dati bastano a descrivere l’ex Alto Volta, un paese di sette milioni di
abitanti, più di sei milioni dei quali sono contadini, un tasso di mortalità infantile del 180 per mille, un tasso
di analfabetismo del 98%. […] Un’aspettativa di vita media di soli quarant’anni, un medico ogni 50.000
abitanti, un tasso di frequenza scolastica del 16%”. Sankara, però, non parla solo a nome della sua terra:
“Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera, considerati come
animali”. E chi come me ha vissuto per dodici anni a Korococho, una più delle terribili baraccopoli di Nairobi,
può assicurare che questa gente è considerata davvero alla stregua degli animali, anzi gli animali sono trattati meglio.
Sankara parla “in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta”, parla “in nome di quanti hanno perso il lavoro in questo sistema che è strutturalmente ingiusto”,
parla “in nome delle madri che vedono i loro bambini morire di malaria o di diarrea”, parla “in nome dei bambini, di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata nel magazzino del
ricco”. Sankara parla di tutti questi e assume nella sua vita la sofferenza della sua gente, del popolo burkinabè e quella di oltre un miliardo di esseri umani, comprendendo che il mondo è diviso, come dice lui, tra “sfruttati e sfruttatori”.
E questo ricorda l’analisi chiara e secca di un nostro conterraneo, Don Milani, quando diceva scrivendo ai
cappellani militari: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che nel
vostro senso io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato e in
privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri”. Sankara si sarebbe
ritrovato in questa posizione di Don Milani. Sankara era molto chiaro quando parlava di sfruttatori e sfruttati: sfruttatori esterni – li chiamava l’imperialismo, il grande sistema – e sfruttatori interni, africani che sfruttavano africani. Diceva che “l’imperialismo è un sistema di sfruttamento che non si presenta solo nella forma brutale di coloro che vengono con dei cannoni a occupare un territorio, ma più spesso si manifesta in forme più sottili, un prestito, un aiuto alimentare, un ricatto. Noi stiamo combattendo il sistema che consente a un pugno di uomini sulla terra di dirigere tutta l’umanità”.
Sankara era ben cosciente di questo sistema, che oggi chiamiamo globalizzazione, che permette a poche
famiglie, trecento o quattrocento, di controllare quasi tutto. A spese di molti morti di fame. Sankara, parlando
delle multinazionali, con lucidità dice: “Dovunque nel mondo la gente si dice scontenta perché il proprio governo non ha creato un terzo, un quarto o un venticinquesimo canale televisivo. Abbiamo veramente
bisogno di fumare questo o quel tipo di sigarette? Ci hanno convinto che se fumi le loro sigarette diventerai
l’uomo più potente della terra, in grado di sedurre tutte le donne che tu voglia. Così abbiamo fumato le loro
sigarette e abbiamo preso subito il cancro. Solamente i privilegiati tra noi hanno potuto permettersi di farsi
curare in Europa. E tutto questo per i profitti del loro mercato di tabacco”. Per Sankara è chiaro che “la sorte
riservata dall’imperialismo ai paesi poveri è la perpetua mendacità come modello di sviluppo”. Ma non è
soltanto sfruttamento economico: questo testo sulle sigarette ci fa capire come l’impero usa i mass media e le televisioni per abbindolarci tutti. Sankara sosteneva che “per l’imperialismo è più importante dominarci
culturalmente che militarmente. […] Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”. E
questo significa mettere in discussione non solo un sistema mondiale, ma anche un sistema interno che
utilizzando le élite borghesi sfrutta, schiaccia, uccide.
Diceva Sankara: “E’ inammissibile che ci siano uomini politici proprietari di ville, che affittano a caro prezzo
agli ambasciatori stranieri, quando a quindici chilometri da Ouagadougou la gente non ha i mezzi per comprare nemmeno una confezione di nivachina per curare la malaria”. E con quel suo fare, con quel suo
parlare a volte così tagliente: “Non possiamo essere la classe dirigente ricca di un paese povero”. Altrettanto
è stato spietato con l’esercito cui apparteneva: “L’esercito non può vivere nell’opulenza, mentre sussiste la
cronica miseria delle masse”. Ed è la lucidità di analisi di Sankara che impressiona. E non è soltanto lucidità,
perché è facile essere lucidi, ma è anche la capacità di assumerne sino in fondo le conseguenze.
Sankara arriva alla conclusione sugli aiuti umanitari cui arrivò Nigrizia [la rivista dei missionari comboniani]
che negli stessi anni si scontrò con il governo italiano proprio sul problema della cooperazione e degli aiuti.
Diceva senza peli sulla lingua: “La politica degli aiuti è servita fino a oggi solo ad asservirci, a distruggere la
nostra economia. L’origine di tutti i mali del paese è politica. E la nostra risposta non può essere che
politica”. E aggiungeva che sarebbero stati accettati solo gli aiuti “che aiutano a fare a meno degli aiuti, non
quelli che servono alle imprese del nord del mondo e a esperti pagati in un mese cifre che basterebbero
ognuna a costruire una scuola”. Parole sacrosante. Parole che hanno portato Nigrizia alla metà degli anni
Ottanta allo scontro frontale con il Ministero degli Esteri e con il ministro Andreotti. Sankara e Nigrizia si
sono trovati sulle stesse posizioni, senza essersi influenzati l’un l’altra, ma arrivando per vie diverse alla
stessa conclusione. Questo è vero non solo per gli stati, ma anche per gli organismi internazionali: “Lo
stipendio annuale di un funzionario della FAO è sufficiente a costruire otto scuole. Se potessimo avere noi
tutto quel denaro lo utilizzeremmo diversamente…”.
Ecco il problema ed ecco la soluzione: la capacità a scegliere la propria strada, l’autosufficienza alimentare.
Su questo Sankara vuole smuovere il suo paese: “Consumiamo burkinabè. […] Visto che chiediamo al nostro popolo di contare sulle proprie forze, bisogna che gli consentiamo di valorizzare e di apprezzare quello che produce con il sudore della fronte”. Un paese che si regge sulle proprie forze, un paese povero, ma autosufficiente. E’ questa la scelta economica, una scelta politica prima di tutto, che Sankara chiede al suo popolo per uscire dalla spirale dell’imperialismo mondiale, che utilizza poi le classi dirigenti ricche africane per reprimere il loro stesso popolo. L’autosufficienza alimentare, il paese che si rimette in piedi, che sente che può farcela, ma per fare questo è importante decolonizzare la mente.
Penso che Sankara abbia ragione quando dice che una delle cose più tragiche che sono rimaste nel cuore degli africani è proprio l’avere una mente colonizzata. Ngugi wa Thiong’o, il grande scrittore keniano, in
“Decolonising the mind” coglie proprio la grande tragedia dell’Africa: il nutrire ormai una voglia occidentale.
Dobbiamo decolonizzare la mente dell’Africa, diceva Ngugi wa Thiong’o, e lo ripete con forza Sankara, per
andare, come diceva Nyerere, verso un modello africano di “sviluppo di civiltà”, in sintonia con la cultura,
che rispetti le radici di questo continente che io amo chiamare “il polmone antropologico” del mondo.
Sankara ha dato l’esempio in prima persona, decolonizzando la sua mente, cercando di convincere la gente
attorno a sé a fare altrettanto, ma anche tutta la comunità internazionale: “Abbiamo deciso di non ricevere
più nel palazzo presidenziale gli ambasciatori degli altri paesi. I diplomatici vengono a farsi accreditare nei
paesini più sperduti, sotto un albero, in mezzo alla gente. Li facciamo viaggiare sulle nostre strade sterrate e
polverose, poi diciamo loro «Signori ambasciatori, Vostre Eccellenze, avete visto il Burkina Faso come è
realmente. Questa è la gente con cui dovete confrontarvi, non quella che lavora in uffici confortevoli»”. Ed è
quello che lui in prima persona fa: va in giro con la sua piccola Peugeot guidata da lui, in bici, oppure a piedi,
senza scorta.
In questo spirito ha colto benissimo, insieme con Nyerere, il vile gioco che viene fatto con il debito, un gioco
che strozza i paesi del sud del mondo, in particolare dell’Africa. Bisogna rifiutarsi di pagare questo debito
per una semplice ragione: “Uno degli ostacoli allo sviluppo è il debito estero. Il Burkina Faso è consapevole
che questa trappola infernale le è stata proposta, anzi imposta. […] Il debito estero è un circolo vizioso, da
cui è impossibile uscirne da soli. Bisogna che ci siano almeno altri quindici paesi per resistere insieme e
vincere”. Nyerere, che ho ascoltato a Nairobi nel 1988, diceva che “è immorale per i paesi poveri pagare il
debito, perché non sono i governi che lo pagano, sono i poveri che lo pagano morendo”. Sankara, qualche
anno prima, aveva dichiarato: “Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; invece se paghiamo, saremo noi a morire,
possiamo esserne altrettanto certi”.
E’ con questa lucidità che Sankara affrontava i problemi di allora, che rimangono irrisolti nell’Africa di oggi.
Se l’Africa vuole uscirne deve assumere questa priorità dello sviluppo endogeno, una responsabilità politica
che permetta ai paesi poveri di fare una politica economica che serva ai poveri, non al grande mercato, perché almeno i poveri d’Africa, la gente d’Africa abbia il sufficiente per vivere. Per fare questo bisogna
decolonizzare la mente e costruire l’uomo nuovo, un africano nuovo: ecco il cuore del pensiero di Sankara.
Una cosa, però, mi sembra mancante. Nel suo pensiero, abbastanza improntato su certi aspetti del marxismo– anche se lui non era un marxista come lo intendiamo noi, era un pragmatico – non c’è mai una critica radicale al problema della violenza. Penso che avrebbe potuto imparare molto di più da Gandhi e da Martin Luther King, perché un popolo si può rimettere in piedi con dignità, anche rifiutando la logica della violenza.
Questa è la grande forza della non violenza attiva che ci hanno insegnato Gandhi e Martin Luther King e con
questa si può vincere. Aggiungendo al pensiero di Sankara il rifiuto radicale della violenza e del pensiero
militare di cui lui era erede penso che si possa giungere a un pensiero nuovo di cui quest’Africa ha bisogno.
Non è un caso che Sankara sia stato ucciso, un uomo così minaccia il sistema. Una precisazione: non sono
uno storico e non ho voluto fare un’analisi dei quattro anni di governo di Sankara. Ci sono varie problematiche su cui non voglio esprimere giudizi e mi risulterebbe difficile farlo. Non sono qui per santificare o mettere sugli altari Sankara. Quindi non vorrei entrare in quelli che sono stati i lati oscuri di quei quattro anni Mi è sembrato importante però in questa prefazione sottolineare l’importanza di quest’uomo: ha dato un esempio di uno stile di vita semplice e povero, ha capito esattamente i problemi del perché l’Africa diventa sempre più povera e ha tentato di dare delle risposte. Non difendo tutto quello che Sankara ha fatto, tutto quello che ha detto, ma mi sembra importante ricordarlo insieme a Nyerere e a Mandela come grande figura morale. Pochissimi in Africa sono stati capaci di dare un esempio.
Con Nyerere e Mandela ricordiamo Sankara, ricordiamo il suo pensiero perché è di un’attualità bruciante, con tutti i limiti che può avere avuto – ho accennato a quello della non violenza e l’influenza militare nel suo
pensiero – e il tentativo di costruire un futuro migliore per il Burkina Faso e per l’umanità. Mi sembra doveroso concludere con Sankara: “Per ottenere un cambiamento radicale, bisogna avere il coraggio di
inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione
dell’uomo è per l’uomo realizzabile. Di questo sono convinto”. Sankara ha tentato di farlo e ha pagato con il
sangue. Ecco perché il suo messaggio è credibile e diventa un grande messaggio per l’Africa, ma anche per noiche abbiamo bisogno di vedere africani capaci di incarnare questi ideali pagandoli di persona.
Padre Alex Zanotelli
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